Nous les referons ensemble, nous les referons ensemble,
demain les vendanges de l’amour…
di Enos Costantini
Autunno, Les feuilles mortes cantava una languida canzone. Fall, dicono gli americani. Che significa proprio caduta (dal verbo to fall), nel senso che cadono le foglie (fall of the leaf nel Seicento), espressione che troviamo per la prima volta in un elenco delle stagioni del 1545: Spring tyme, Somer, faule of the leafe, and winter (si scriveva così).
Le foglie cadono anche in Friuli, ma è un fenomeno che ora interessa solo quelli, e non sono pochi, a cui danno fastidio. Pare che deturpino il prato all’inglese, attentando sincronicamente con truce perversione alla illibatezza del vialetto che porta alla villetta.
In autunno si piantano i bulbi di cipolla (vi consiglio la Bionda di Stoccarda, e non solo per l’attraente nome) e gli spicchi di aglio. Una volta l’aglio si metteva con la luna dei Santi, adesso non so; è cambiato tutto, saranno cambiate anche le lune.
Per le verze siete tardi, dovevate farlo al declinare dell’estate. Passerete un altro inverno senza verze, ma ci sono i supermarket con tanto pessimo junk food, cibo-spazzatura monogusto per tutti i gusti. Venghino signori!
Tra Santi e Morti
A proposito di santi: la ricorrenza più importante, in ogni cultura, è quella dei Morti. Ma ci hanno deviato verso i Santi, come se questi ultimi non avessero a disposizione già tutti i giorni del calendario. Più di così che cosa vogliono?
Il culto dei Morti ci faceva ricordare quanto siamo vicini alla Terra (Memento, homo, quia pulvis es…) in ogni senso. E la vita dipende dalla Terra, intesa come Madre e come pianeta. Di Madre ve ne è una sola. E anche di pianeta Terra.
Forse Madre Chiesa (ma di Madre non ce n’è una sola?) pensava che questa storia dei Morti, culto precedente al suo avvento e al suo potere temporale, potesse toglierle qualche spazio, come le agane e i benandanti, così il giorno dei santi e dei beati è stato posto a ridosso di quello dei Morti. Non ricordo se il giorno dei Santi è vacanza o lavorativo; sicuramente quello dei Morti è lavorativo. Dovrebbe tornare a essere la festa più importante dell’anno, con tutto il rispetto per Christmas.
Poi è arrivato Halloween, l’americanata più oscena e deculturante pervenutaci dagli Stati Uniti d’America. Ciò ha finito per far considerare questo momento, anche ai giovani e ai giovanissimi, una specie di carnevale idiota. E i Morti? Spero vengano di notte a tirare per i piedi chi non solo non si ricorda di loro, ma addirittura li oltraggia con queste stronzate (consentitemi qualche sboccatezza; abbiamo avuto premier e vicepremier ai quali avete consentito ben altro).
Perché ricordare e onorare i Morti? Oh, bella, perché i Morti siamo noi.
Il nostro sangue, i nostri cromosomi, la nostra famiglia, il nostro legame col passato. E col futuro. Chi ha figli e nipoti non può non ricordare chi ha versato sangue, sudore e lacrime in questa Valle. E tentare di farne versare di meno a chi verrà dopo. Siamo qui per quello: per le generazioni future.
I nonni bonificavano i terreni e piantavano alberi di cui non avrebbero mai visto i frutti. Noi, senza morale, non solo non facciamo altrettanto, ma distruggiamo la Terra e, quindi, il futuro.
Le foglie di castagno
L’autunno è bello, è tenero, è colorato, è per i poeti (ma ve ne sono ancora?), ha ispirato tanti artisti (e come non potrebbe?). D’autunno le foglie mollano la fotosintesi spogliandosi della verde clorofilla e fanno apparire tutto il teatro dei colori che il verde prima nascondeva. È il trionfo, il tripudio, il delirio di antociani e flavoni, xantofille e carotenoidi.
Non serve andare nel rinomato Canada per godere dello spettacolo; il Friuli montano basta e avanza. E le colline con le loro vigne fanno regali mozzafiato. Fateci la foto e postatela su instagram, come fanno milioni di altri umani. Se però siete furbi vi fermate un attimo a godere dello spettacolo, quello che il massimo Artista ci ha voluto regalare, a noi indegni figli americanizzati da improbabili streghe e nasi finti.
Già, ci sono maestre che a scuola (a Scuola!) preparano la festa di Halloween. E non spiegano, non saprebbero farlo, perché le foglie cambiano colore. Già, le foglie. La nostra vita dipende da esse. Il frumento ha le foglie.
Quando una volta si cominciava la scuola il primo giorno di ottobre si apriva il sillabario e invariabilmente appariva il seminatore che con largo gesto seminava il frumento. Roba di epoca fascista, d’accordo, ma il frumento non è fascista e quel gesto risale a diecimila anni fa, ben prima che un qualche benito riuscisse, ammesso che ci sia riuscito, ad appropriarsene.
E assieme al seminatore apparivano i frutti dell’autunno: le castagne e l’uva soprattutto. Anche i castagni e le viti hanno le foglie, ditelo alle maestre. Le foglie del castagno, di un bel giallo doratissimo al momento della raccolta, diventano di un uniforme marrone una volta cadute, quando formano dei soffici spessi tappeti. Profumatissimi; un aroma tannico e gradevole, intenso e quasi balsamico che ti riempie le nari e l’anima. Te le riempie di che? Ma di filosofia della vita che diamine! Non ci serve ogni momento un Cacciari, ognuno può essere il Cacciari di sé stesso (con tutto il rispetto per quel Pensatore). Basta che cammini tra le foglie di castagno. Chi non ha mai camminato in un tappeto di foglie di castagno non può capire.
Les vendanges de l’amour
La vendemmia era fatica, sudore e festa, allegria e ormoni giovanili di filare in filare. C’era perfino una cantante francese, Marie Laforêt, che cantava una scandalosa (per gli ipocriti) canzone avente per titolo Les vendanges de l’amour. La sentivo nel juke-box che si trovava nell’osteria del paese, vicino alla latteria e all’ort di Nora.
Spero tanto che le vendemmie siano ancora così, ma nessuno mi chiama più a vendemmiare. Sarà che è una roba per giovani, o per macchine.
A fine giornata “attaccavi” da tutte le parti ché lo zucchero dell’uva è attaccaticcio, avevi la testa piena di storie e di barzellette, gli occhi pieni della ragazzina del filare accanto. Filare al quale cercavi di aggregarti tra i sorrisi bonari e accondiscendenti delle donne più attempate che dicevano “ogni zocul il so salt”. Non vi do la traduzione; non perché l’espressione sia oscena, tutt’altro, bensì perché la vostra ignoranza della lingua dimostra che quei tempi sono finiti.
Un altro amen sui colori (l’unico che avete in testa è quello dello spriz Aperol) e sugli ormoni giovanili ché i giovani non fanno più figli. Dicono che con l’inquinamento è diminuito il numero di spermatozoi, però sono talmente tanti che dovrebbero essere ancora sufficienti. Sarà diminuita la libido per via che le vendemmie si fanno a macchina, o ci vogliono troppe carte per assumere temporaneamente dei giovani, chissà. La burocrazia e il terziario parassitario ora attaccano anche la demografia.
Quando vedo dei giovani che portano a spasso il cane mi viene una profonda malinconia. Il Creatore non li ha fatti per quello. Né i giovani umani, né i cani.
Chanson d’automne
Chi di voi ha letto Verlaine? Io sì, e anche Rimbaud. Ho acquistato i loro libri dai bouquinistes sul Lungosenna quando, a 19 anni, ho trascorso le vacanze pasquali dagli zii a Parigi (Antony, a dire il vero). Non lo dico per fare sfoggio di cultura; se non avete letto Verlaine avrete ben letto altro.
Però non resisto proprio, non ce la faccio a non offrirvi i versi della Chanson d’automne:
Les sanglots longs
Des violons
De l’automne
Blessent mon cœur
D’une langueur
Monotone.
Tout suffocant
Et blême, quand
Sonne l’heure,
Je me souviens
Des jours anciens
Et je pleure ;
Et je m’en vais
Au vent mauvais
Qui m’emporte
Deçà, delà,
Pareil à la
Feuille morte.
Ho qui il libro da cui ho copiato i versi. Emana ancora l’odore del 1969. I libri hanno sempre un odore e quello della collana Livre de Poche è caratteristico e gradevole, oserei dire sensuale. Avranno chiesto a qualche profumiere parigino di farci uno Chanel ad hoc.
Sì, lo so che una strofa ha avuto un ruolo nella seconda guerra mondiale, ma ciò che voglio dirvi è che ho gli occhi gonfi e che le lacrime mi si ripresentano ogniqualvolta rileggo la pagina numero sessantanove di quel tascabile. Non serve sapere il francese; la barriera linguistica è una scusa per chi non riesce a provare commozione. Bon, basta così ché questa poesia, la cui esegesi è impossibile, induce a un pianto struggente e non voglio farmi vedere dai familiari.
Mano nella mano
Non datemi del francofilo, vi prego; ho pur cominciato con Fall degli americani. E non vi ho neanche detto che in friulano l’autunno era detto sierade. E che nell’estate del 1955 a Osoppo un bambino mi disse altezzoso “po no sastu che jo chesta sierada i voi a scuela!”. Ci trovammo nello stesso banco. E in quella sierada andai nel bosco di Osoppo a raccogliere la frint, cioè le foglie secche che si usavano come lettiera per le vacche rosse con linea dorsolombare bianca. E avevo con me il sillabario e due libretti che il maestro mi aveva prestato. Ed era bello stare sul mucchio delle foglie fruscianti, fino all’arrivo del brivido serale. All’epoca a novembre faceva freddo.
E quelle feuilles mortes sarebbero servite al benessere animale, a rinvigorire poi la fertilità del terreno e la speranza del raccolto. Il ciclo della vita intuito laggiù, nel bosco di Osoppo, a sei anni.
Poi, come reazione alla sconsiderata azione umana, sarebbero venuti Rachel Carson, Eugene Odum, Barry Commoner, Laura Conti e altri profeti inascoltati, poeti e romanzieri del futuro con le parole della scienza, crude, affascinanti.
E ai giovani, ma direi che può valere per tutti, lascio questi versi delle Vendanges de l’amour di Marie Laforêt. Sono una metafora del futuro. Il futuro è lotta, e bisogna lottare insieme:
Et ta main comme une chaîne viendra se fondre à la mienne
enfin pour le pire et le meilleur…