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4 Dicembar 2018

Il Natale dei minimi

RADICI PROMESSA ATTESA di di Don Franco Saccavini

Siamo figli della memoria e della promessa. Subiamo il fascino della Bibbia come il cantore del colore e delle figure trasfigurate e sospese tra cielo e terra di Marc Chagall. Figli della memoria di una terrestrità insignita da rapporti di  forza dove il debole, il perdente e le comunità marginali non fanno storia e non hanno il diritto di appartenervi. Siamo figli dell’arameo/mesopotamico Abramo errante (non vagabondo), dentro la discendenza dei figli di Sem e di Camuel, figlio di Nacor e di Melcha, ambedue di nome Aram. Un Ovèd, uno in rovina: Arameo in rovina. Parlavano l’aramaico, la lingua internazionale del commercio, ma anche della diplomazia. Siamo parte del popolo di Aram. Della Siria, di ciò che rimane di essa. Sono i nostri cugini distanti, quelli che abitano a Oriente, figli di Eber. Siamo figli dell’alfabeto fenicio. Gli aramei non furono mai un impero unito. Assomigliavano molto a Cananei e Babilonesi; adoravano Baal e Astarte. Credevano di poter contare sulla fertilità, sulla macchina biologico generativa. Credevano che la salvezza venisse da lì, dalla produzione. Nessuna salvezza dal di fuori; tutto dal di dentro.
La nostra memoria ebraico-cristiana ha voluto invece fare i conti con la propria incapacità storica di autosalvazione, con la propria sterilità così ben rappresentata da Abramo, Sara e per ultimo, dalla coppia Elisabetta-Zaccaria, l’ebreo di classe sacerdotale rimasto muto per assenza di affidamento all’amore sovrabbondante che può rendere fecondi anche i grembi sterili.
Elisabetta era donna minima, laterale. Lì nessuno poteva nulla. Senza discendenti, senza futuro. Però credeva. Era l’amore femminile ebraico. Solida nella disperazione. Portava con sé tutta la memoria e l’attesa ebraica. Era consolata dalle parole della promessa: «Farò di te un popolo così numeroso come le stelle del cielo». E Dio le accreditò a giustizia il suo fidarsi.
Ad Ain Kerem, quartiere di Gerusalemme a otto chilometri dalla città vecchia, nel luogo in cui Chagall ha lasciato le tracce di colore della sua fascinazione biblica, l’incontro con Maria, altra donna minima che non conosce uomo e che si lascia visitare e concepisce un figlio che sarà il Dio con noi. Tutta la storia umana è sotto il segno della sterilità e della incuria. Eppure l’invenzione di Dio si è fatta carne nei nostri giorni. Tutto è sottosopra per questa inattesa presenza «Kαθε?λεν δυν?στας ?π? θρ?νων…» «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» e prima ancora «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore».
Anche per loro ci sarà salvezza perché l’amore eccessivo troverà la strada per incontrarli nel loro fallimento e nelle loro pulsioni di morte.
Questi occhi trasfigurati possono permanere nei cercanti, nei camminanti, negli inquieti, nei pensanti, nei perdenti, nei poveri, nelle comunità che custodiscono memoria, promessa e attesa.
Porte, porti chiusi, confini invalicabili fanno parte di storie di uomini ‘grandi’ dai piedi di argilla.
La terra non è dei potenti, è di Dio e i credenti fittavoli di questa terra sono transitanti e cittadini contemporaneamente, dentro il tempo che verrà: quello della Gerusalemme vestita a festa.
 

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