DI LÀ DA L'AGHE, SPILIMBERGO di Gianni Colledani
Prima di parlare di Domenico Margarita di Travesio, conosciuto in Val Cosa come Meni da la lûs, una premessa è d’obbligo.
Il mondo al buio
Verso i primi decenni del '500, prima ancora che Jacopo Valvasone di Maniago redigesse la sua Descrittione della Cargna nel Friuli, gli ambulanti della Valcellina, in particolare di Claut, Erto e Cimolais vendevano asticciole di legno di abete impregnate di resina, la cosiddetta lum, adattissime per accendere il fuoco. Mete preferite Venezia, il Trevigiano, la Bassa Friulana.
Ancora più mercato aveva la pece che veniva raccolta in appositi barattolini di legno dopo aver inciso a V, e in profondità, la corteccia di pini e larici.
Infatti, prima dell’avvento della diavolina, la pece era importantissima per accendere il fuoco. Ne è buon testimone il verbo friulano impiâ che deriva da impeçâ/impiçâ, cioè mettere, spalmare la pece sull’apposita asticella prima di accostarla ai sarmenti e al mucchietto della legna secca e minuta. Una volta era un’arte accendere il fuoco.
Era difficile avere e mantenere il fuoco. La sera si avvolgevano le braci nella cenere del focolare (inmuluçâ il fouc) per ravvivarle al mattino. Se il fuoco moriva si andava a prestito domandando delle braci ai vicini.
Una giovane sposa, che era tale ai primi del '900, mi raccontava di essersi trovata in tale necessità quando, l’indomani delle nozze, andò in una casa vicina a toli las bores cul aurinâr. Cose della preistoria.
Fuoco uguale a calore. Fuoco uguale a luce. Il fuoco riscaldava e rischiarava, non illuminava. Grasso di maiale, olio e petrolio con relative lucerne, candele e ferârs erano nella disponibilità di pochi privilegiati. Dopo il solstizio d’inverno non si vedeva l’ora che le giornate si allungassero. Era vivo il detto: “A Nadâl un pît di gjal, a la Befanìa un pît di stria, a sant Antoni di zenâr una ora biel a vuâl e a san Valantin a si distuda il lumin”.
Finalmente si poteva andare a regolare le bestie nella stalla senza ferâr, senza danni per il taccuino e senza pericolo che il fieno andasse in cenere.
Ancora una volta il lessico ci viene in soccorso dicendoci che distudâ deriva da extutare (verbo latino tueor, proteggere), ovvero togliere la protezione al fuoco nella lanterna, cioè spegnere la fiamma.
Insomma come vi sarete accorti, prima dei fiammiferi era dura. Il fiammifero, come dice la parola stessa, “porta la fiamma”. Nel 1805, in Francia, tale Jean Chancel preparò un fiammifero chimico. Consisteva in un legnetto impregnato di zolfo, con una capocchia composta di clorato di potassio e zucchero, il quale si infiammava immergendolo in una bottiglietta contenente acido solforico. Comodo, ma laborioso. Chancel fu premiato da Napoleone, ben contento di poter attivare le artiglierie con più rapidità e far fuoco prima del nemico.
Ancora una volta l’applicazione dell’ingegno, teso ad ammazzare meglio e più rapidamente il prossimo, portava a una non banale innovazione nel settore domestico.
Poi arrivarono altri tipi di fiammiferi accendibili per strofinamento su carta vetrata chiamati congreves in onore dello scienziato inglese W. Congreve.
Erano legnetti con zolfo, solfuro di antimonio, clorato di potassio e gomma. Il preparato detonante su zolfanello, esposto alla percussione o allo sfregamento, si accendeva sprizzando una fiammella. Vennero chiamati fulminanti, da cui i nostri fulminants/furminants. Una bella e praticissima novità! Ma ancora sul finire dell’ 800 i fiammiferi si importavano dall’estero, Francia, Germania e Svezia, ed erano cari. Ricordiamo che la prima fabbrica di fiammiferi in Italia fu aperta a Venezia nel 1889 da un grande uomo d’ingegno e filantropo nostrano, Luigi Baschiera di Dominisia di Clauzetto, chimico di professione, che divenne in breve ricchissimo (vedi Lo Scatolino, primavera 2019).
Sia fatta la luce, e la luce fu.
Per fortuna nelle nostre valli, apparve un uomo d’ingegno, un autentico pioniere: Domenico Margarita nato a Venezia nel 1883 da genitori di Travesio, attento alle novità, curioso, lungimirante. Grazie a lui dal 1912 in poi, un po’ alla volta, andarono in pensione candele e ferârs e ciò contribuì indubbiamente a far uscire tutta la zona da un antico dormiveglia e a proiettarla nel mondo nuovo. Del 1912 infatti è la realizzazione della Centrale elettrica di Madonna di Cosa a Zancan. Fu così che nelle case di Travesio le prime lampadine si accesero il lunedì di Pasqua dello stesso anno. Non male, se consideriamo che il 1° gennaio 1889 Udine, grazie alle finanze di Marco Volpe e al talento del giovane Arturo Malignani, era stata tra le prime città al mondo a dotarsi di luce elettrica pubblica.
Al 1925 risale invece l’inizio dei lavori di sbarramento della forra del Cosa appena a fianco della strada detta del Tul, che dalla borgata Mulinârs porta a Clauzetto. La luce elettrica era vista come un miracolo e il suo demiurgo, l’ing. Margarita, appariva agli umili e rustici abitanti della Val Cosa come un mago, una specie di demone benefico.
Come ogni novità anche la luce elettrica fu accolta con sospetto e timore, senz’altro con curiosità, ma mai con entusiasmo. Il contadino infatti è per sua natura diffidente, poco incline alle novità, insomma tradizionalista e conservatore perché legato ad esperienze profonde e collaudate, alla ripetitività di gesti millenari.
Ai bordi delle strade, nei prati, lungo i pendii boscosi ora passava la linea da la curint, l’entità misteriosa che tutti chiamavano fuarça. I pali di rovere, ma più spesso di castagno, entrambe essenze a lunga conservazione perché contengono tannino, se ne stavano belli allineati come tanti soldatini. Avevano un diametro di circa 25/30 cm e venivano piantati e fissati nel terreno. Erano sormontati da due isolatori di ceramica bianca (pipes), che sostenevano e tenevano distanziati i fili, attrazione fatale per tutti i monelli che, armati di fionde, andando o tornando da scuola, tenevano esercitata la propria mira, ben attenti a non farsi pescare dal guardiano o dallo spione del paese.
Nel volgere di pochi decenni il paesaggio cambiò e lo snodarsi delle linee rivelava le borgate dove era arrivata la luce. Spesso, alle borgate più lontane, siôr Meni concedeva la luce con il patto che si arrangiassero a predisporre la linea. Allora con tanta buona volontà i giovani del paese, armati di scuri e di segoni, preparavano i pali di castagno nei boschi e, a forza di braccia e con l’aiuto di qualche mulo, li portavano in strada e da qui nei siti stabiliti dove li piantavano a forza di pala e piccone. Era una bella faticaccia!
Soprattutto i vecchi erano contrari alla luce, c’era chi sosteneva di non volerla perché era sicuramente una luce che “faceva male”, “una lûs che a svuarbava”, una luce del diavolo. E poi, tutti quei fili e tutte quelle diavolerie…
Con l’arrivo della corrente molte cose, non tutte, cambiarono in meglio.
Ma la luce era pur sempre una forza misteriosa ancora ignota e non facilmente gestibile. Ci fu chi, o per curiosità o per inavvertenza, mise le dita nelle prese di corrente e restò folgorato e chi si beccò una scossa tale da rimanere intontito, ma fortunatamente salvo. Nei santuari, a Barbana e Castelmonte, si cominciò a vedere i primi PGR (Per Grazia Ricevuta) e i primi ex voto naif, con un lui o una lei come colpiti da un raggio luminoso, la scarica della corrente, ma miracolosamente salvi per il divino intervento.
Il mondo stava girando pagina e anche la devozione popolare si adeguava: non più ex voto con cavalli imbizzarriti e muli scalcianti, niente più carri agricoli ribaltati e simili accidenti legati al mondo agrosilvopastorale.
Il nuovo aveva fatto irruzione prepotentemente nelle nostre valli, cambiando secolari modi di fare e condizionando atti e mentalità. E poi vennero televisori e frullatori, lavatrici e scrematrici, lavastoviglie e levigatrici, rasoi elettrici, ferri da stiro e altri marchingegni. Un travolgente fiume in piena.
Tanto che, nel volgere di meno di un secolo, si è passati da fioche lampadine a luminarie sfolgoranti, così intense da far la veglia al sole. E anche nei nostri paesi non si scherza che pare di stare alla periferia di Las Vegas.
In Val Cosa tutto era cominciato nel lontano 1912, in un crescendo lento ma inesorabile che si sarebbe concluso sul finire degli anni Cinquanta quando la curint arrivò anche nelle borgate più sperdute, alla vigilia, ironia del destino, del loro irreversibile spopolamento.
E tutta questa singolare vicenda affonda le radici nel lontano secolo dei Lumi, ma soprattutto nel sogno di un illuminato pioniere: Domenico Margarita, Meni da la lûs, uomo ricco di curiosità e di idee, uomo animato da una grande nostalgia del futuro. In fondo, senza saperlo, era lui stesso il futuro.