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Roncelli Paesaggio con incendio
15 Setembar 2018

Notte fonda Linceo Faust Mefistofele

SGUARDO E MEMORIA di Umberto Valentinis
Prologo

“Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani, mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?”, Ernst Jünger. Oltre la linea.
Proseguendo con le considerazioni sul rapporto tra sguardo e mondo, ho ritagliato una breve parabola dalla ricchissima stoffa del Faust di Goethe.
I personaggi della parabola sono tre.
I due principali sono anche i protagonisti della vicenda poetica: Faust e Mefistofele, e non richiedono presentazioni. Ad essi si affianca, o meglio si contrappone, Linceo, il guardiano della Torre: a rigore, un dipendente di Faust. In realtà, una figura emblematica, che sarebbe sbagliato relegare in un ruolo di comparsa. Non si può infine trascurare la coppia “larica” costituita dai vecchi Bauci e Filemone. Come Linceo, sono ospiti stranieri in terra germanica, provenendo entrambi dall’Ellade favolosa, dopo un soggiorno significativo nelle plaghe ospitali e rigogliose della poesia di Ovidio, nelle Metamorfosi.

Linceo e Faust sono separati da una radicale contrapposizione. Linceo è il prototipo del contemplatore. Immerso in un flusso ininterrotto di sensazioni piacevoli, incarna il tipo dell’edonista estetico: vive nell’eterno presente dell’apparenza. È un conservatore, perché tende a non modificare le condizioni che gli permettono di ripetere l’esperienza del piacere. Non ha bisogno della Memoria, finché vive nel presente, così come non ha bisogno del futuro, dal momento che riceve più di quanto non progetti e non sceglie quello che ama. È una condizione esistenziale la sua, apparentemente invincibile, in quanto protetta dalla felicità. In realtà è fragile. E inerme nei confronti delle irruzioni del Principio di realtà. Verranno, di lì a poco, Kierkegaard e più tardi Freud a scrutare a fondo nelle insufficienze dello stadio estetico. Quasi inevitabilmente, va incontro alla catastrofe, anche se nobilissima.

Più diverso non potrebbe essere, lo sguardo di Faust: non contempla la Natura come fonte di piacere estetico: la osserva per misurarne le potenzialità di sviluppo: per ricavarne spazi sempre più vasti e liberi al desiderio e alla volontà di potenza. Non prende mai stabile domicilio nel presente, per soffermarsi e indugiare, neanche se è la voluttà a trattenerlo. Viene dal passato, che conosce bene, ma non ama: se lo lascia alle spalle, così come attraversa il presente con impazienza per avventarsi sul futuro, che è il luogo dei suoi trionfi illusori e delle altrettanto illusorie sconfitte: perché tutto lo ammaestra, ma niente lo soddisfa, e niente lo redime. Del Signore delle Mosche mi riservo di parlare più a lungo, ma non ora.

Tiefe Nacht (Notte fonda), è la didascalia di uno dei luoghi poetici più ricchi di significato dell’immenso poema: il Faust di Goethe, il II Faust.

Linceo, il guardiano della Torre dall’alto della sua vedetta solitaria, nella notte silenziosa canta con accenti appassionati la bellezza del mondo, lo splendore dell’apparenza e la felicità che ne proviene. La torre domina il Palazzo che Faust si è costruito al centro del suo feudo imperiale, in prossimità del mare. Poco lontano, ai margini delle vaste superfici bonificate in via di riordino, sopravvive un lembo di natura incontaminata. All’ombra dei tigli di un vetusto boschetto vive al riparo di una capanna muscosa una coppia di vecchi venerandi, Filemone e Bauci. Al crepuscolo fanno suonare le campane della cappella attigua alla loro dimora.

Non è quello di Linceo lo sguardo del dominatore che, dall’alto della sua posizione privilegiata, si compiace dell’estensione del suo dominio, cassa di risonanza del suo Ego. È invece lo sguardo del contemplatore: di chi è nato ed è stato scelto “per guardare e per vedere”: per riconoscere e celebrare “lo splendore eterno del mondo”. Un flusso ininterrotto di immagini fluisce dal mondo allo sguardo e dallo sguardo rifluisce sul mondo. Cose lontane e cose vicine, ugualmente mirabili, si mescolano: “la luna e le stelle,/il bosco e il capriolo”. La bellezza delle apparenze sospende il tempo, abolisce ogni finalità, ogni idea di colpa o di salvezza. Prendendo domicilio nello sguardo, sembra addirittura assegnare al pensiero, alla parola che lo traduce e lo articola, un ruolo sussidiario, da concelebranti. Sembra assorbire in sé addirittura il Bene, restituendolo sotto forma di piacere. Tra mondo e io non sussiste dissidio. E colui che prova piacere nelle cose del mondo, trova piacere anche in se stesso; “Voi, occhi felici, ogni cosa che avete visto, quale che fosse, era pur bella!”. Il principio di piacere sembra dominare incontrastato. Bisognerà aspettare che lo sguardo inesorabile di Freud sveli le antinomie del suo dominio, e promuova la dolorosa, ma inevitabile transizione dallo sguardo edonistico-estetico di Linceo, amoroso e disinteressato, allo sguardo misuratore e utilitaristico del tardo Faust.

Alla fine del canto, subito dopo la giubilante affermazione, si inserisce una pausa. Quando il canto di Linceo riprende, non avrà più i toni dell’idillio: sarà un canto funebre, un epicedio, che contraddice gli accenti risuonati poco prima: e lo sguardo di chi contemplava estatico l’eterna armonia delle belle apparenze, ora deve accogliere la disarmonia, l’orrore e la morte. All’Amore che sembrava dominare in solitudine, si affianca ora il suo sosia oscuro, la Morte. E d’ora in poi non abbandonerà più il campo.

Quello che dal fondo della notte si mostra ora allo sguardo di Linceo, proviene dal fondo di quel male che la Bellezza non abolisce, ma tutt’al più rimuove: che di nascosto continua a tessere le sue trame, operando contro i suoi sogni e vanificando qualsiasi illusione di armonia.

Divampa un incendio nel boschetto di tigli; va in cenere la capanna dove la coppia “larica” ospitava i viandanti; crolla la cappella, da cui si levava, la sera, il suono della campana. L’Arcadia superstite soccombe, l’idillio si dissolve. Linceo deve riconoscere che “Non solo per godere sono stato collocato così in alto”: che anche questo dovevano vedere i suoi occhi! Il suo canto si spegne dopo una lunga pausa su un ultimo addio sconsolato: “Quanto già rallegrava l’occhio,/è perduto per sempre!”. Dalle macerie del piccolo mondo incenerito, rinasce ora il sentimento del tempo, che la Bellezza sembrava aver assorbito nel suo splendore incorrotto: rinasce la nostalgia di fronte all’irreparabile.

Il ruolo di mandatario del disastro, Goethe ha scelto di riservarlo a Faust vecchio, anche se si studia di limitarne in parte la responsabilità. La crudele chiaroveggenza del poeta vecchio fa gravare il peso dell’azione nefanda proprio sulle spalle del Faust più “positivo”, proteso alla realizzazione delle “magnifiche sorti e progressive”: del Faust bonificatore, del Faust demiurgico, temerariamente fiducioso di poter perfezionare i disegni del Creatore, agendo sulla Natura, per correggerla potenziandola, sicuro di saper conciliare il titanismo del potere, con le esigenze del bene comune.

In questa scelta del vecchio poeta vi è già una prefigurazione di quella alleanza tra razionalità tecnico-scientifica e volontà di potenza, tragicamente feconda di contraddizioni e orrori, che l’Illuminismo ha trasmesso alla modernità e che quest’ultima incessantemente perfezionerà, di errore in illusione. È un vecchio logorato, quello che si approssima alla conclusione del suo insaziato sperimentare: un grande dilettante, un seduttore sedotto, incapace di uscire dai limiti del “placet experiri”: incapace soprattutto di rinunciare alla curiosità spesso futile, irresponsabilmente rischiosa, che lo spinge ad entrarvi.

Molto tempo prima, Faust si era spinto temerariamente a modificare il celebre incipit giovanneo: “In principio erat Verbum”, tradotto da Lutero, “Im Anfang war das Wort”, sostituendo a Verbum e a Wort, l’Azione: “Im Anfang war die Tat!”. E a quel principio aveva uniformato il suo sguardo.
Niente di più lontano, il tardo sguardo faustiano, dallo sguardo estatico del contemplatore della Torre. L’occhio è per lui solo un veicolo: impotente, se privato del sostegno della razionalità, ma anche del gioco imprevedibile, ingovernabile, delle pulsioni. Insufficiente, se si ostina a ritrarsi dal tempo e dalla storia; se si rinserra nel sogno della Bellezza, divinamente irresponsabile, come sono irresponsabili gli Dei, al di là del bene e del male; se coltiva perplessità sul sacrosanto diritto-dovere dell’uomo di intervenire sulla Natura, e piegarla ai suoi fini.

L’Azione, allora. E il vecchio Faust, a questa ultima fede rischierà di sacrificare anche la sua residua umanità. Costruirà allora una diga, che proteggerà il dominio ricevuto in dono dall’Imperatore dalla rapina del mare; farà scavare un canale: strapperà nuove terre coltivabili alle putride paludi: darà lavoro a molti, darà loro benessere. Darà, forse, a se stesso, - e questa è la più temeraria delle speranze-, la felicità. Questo sarà l’ultimo, grande compito di Faust: quello che dovrebbe consentirgli di arrestare l’attimo, con la troppo celebre apostrofe: “Fermati, sei pur bello” (“Verweile dich, du bist so schön!”). È significativo che non scelga di dire all’attimo: fermati, sei buono, sei giusto, sei vero. Sarà ancora l’estetico: sarà ancora “das Blenden der Erscheinung” (lo splendore delle apparenze), contro il quale aveva lanciato la sua maledizione (“Verflucht das Blenden der Erscheinung!”); sarà ancora il sogno della Bellezza, del suo fragile primato, mille volte proclamato e mille negato, ad avere l’ultima parola?

Questa sarà anche l’ultima occasione per inciampare contro uno di quegli ostacoli apparentemente trascurabili, ma in realtà fatali, che il destino si diverte a gettare tra i piedi dei viventi.

Il boschetto di tigli che abbiamo visto avvampare nella notte, davanti allo sguardo sgomento di Linceo, la capanna dei buoni vecchi Filemone e Bauci, la cappelletta con la sua squilla serotina, sono questi gli ostacoli coi quali Faust dovrà cimentarsi. Volontà e arbitrio si scambiano i ruoli e le nobili finalità dell’imprenditore filantropico trovano senza difficoltà le giustificazioni del caso.

Le parole che Goethe mette in bocca a Faust sono agghiaccianti.“Resistenza, ostinazione/Guastano il successo più splendido./ E sia pure con amaro tormento si deve riconoscere che essere giusti stanca” E ancora: “Quei vecchi là devono andarsene… Quei pochi alberi che non sono miei, mi guastano il dominio del mondo”. “Durissimo è il tormento di sentire, pur nella ricchezza, quanto ci manca! Il suono delle campane, il profumo dei tigli mi soffocano in un chiuso di chiesa e di tomba. Il mio arbitrio potente si spezza su queste sabbie… Squilla la campana e io esco di senno!”.

Faust impreca, non sopporta il maledetto scampanio: “das verfluchte Bim-Baum-Bimmel”; non sopporta la presenza del boschetto, della capanna bruna, della cappella cadente che interrompono la continuità del suo dominio. La ragion pratica, convinta di essere al servizio del Bene generale, non tollera la gratuità della bellezza. Così, si affida a Mefistofele e a tre bravacci da lui assoldati, per rimuovere una volta per tutte il molesto impedimento: “È senza Dio quell’uomo, gli fanno gola/la nostra capanna, il nostro boschetto!/ È un tale vicino, che più lui si allarga,/più a noi tocca chinare la testa. “La vecchia Bauci aveva visto giusto. Ma anche Mefistofele sa come andranno a finire le cose: non dimentica che ci fu un tempo la vigna di Naboth*. Ma il suo pessimismo cosmico gli impedisce di intervenire. “Comunque vada, siete perduti:/Gli elementi congiurano con noi,/e si corre verso l’annientamento”.

A cose fatte, Faust è contrariato: si dispiace, ma non sembra pentirsi. Se la prende con chi ha frainteso i suoi ordini, prorompendo in un’apostrofe accusatoria e insieme autoassolutoria, che dice molto più di quanto vorrebbe. “Eravate sordi, quando vi ordinavo?/Uno scambio, volevo, non una rapina!”. Ecco risuonare qui i primi accenti che contrappongono il valore di scambio al valore d’uso: ecco prefigurarsi uno dei percorsi più impervi e maledetti della modernità. È pieno di profezie, il grande Libro. Lo si potrebbe usare come libro sapienziale, per ricavarne presagi. O come usavano fare i Pietisti contemporanei di Goethe con la Bibbia: infilando a caso il pollice tra le sue pagine - lo chiamavano Däumeln-, e trarre ammaestramenti dalle parole segnate. Diteggiavano, già allora verso la fine del XVIII secolo, i nostri pii progenitori.
Ma ora sul vasto palcoscenico ingombro, c’è aria di smantellamento. Uno per uno vengono rimossi fondali dipinti e quinte di cartapesta: la grande, mirabolante, bizzarra, anche strampalata, attrezzeria scenica accatastata all’inverosimile per tutto lo spazio teatrale si dissolve come per magia.

Resta ora solo una striscia di terra, in riva al mare: il Palazzo, la Torre sui quali finiscono di fumigare i resti dell’incendio appiccato poco lontano. Faust è rimasto solo, con Mefistofele. Ma quest’ultimo è sempre meno il complice di innumerevoli avventure: di strepitosi, ambigui sortilegi. Sempre di più è il basso continuo che commenta sogghignante e sconsolato gli ultimi nobili deliri del suo sodale. Alla fine, restato solo anche lui, incomincerà ad aggirarsi furtivo per le strade e nelle case della modernità, come “il più inquietante di tutti gli ospiti”**, sussurrando all’orecchio la notizia che “Dio è morto”, e Nietzsche sarà tra i primi ad ascoltarlo, tra i primi a riconoscerlo.

A mezzanotte Faust riceve una visita inattesa: è un’ultima occasione di confrontarsi con la nudità del dolore, con l’agguato della depressione che proviene dal profondo e nullifica ogni desiderio e ogni progetto. Di fare pulizia dentro la sovrabbondanza fallace del suo vissuto. Tre sono le Donne Grigie, ma alla fine resta con lui solo una quarta, sopraggiunta. Prima di accomiatarsi le tre cantano una di quelle sinistre canzoncine falsamente popolari, che sono una specialità tipicamente tedesca. “Le nubi passano, dileguano le stelle!/Di lontano, di lontano, eccola che arriva, la sorella, eccola la morte che arriva!”. Quella che si intrattiene con Faust riluttante è la Sorge. Viene tradotta in italiano con Cura o Afflizione, ma sono equivalenti inadeguati. Vorrebbe congedarla, il vecchio: potrebbe ricorrere ancora una volta, per sbarazzarsi di lei, a qualcuna delle sue formule magiche, ma questa volta rinuncia: mormora tra sé e sé: “Trattieniti, non pronunciare parole di magia!”. Ma alla fine la scaccia comunque. “Non voglio riconoscere il tuo subdolo potere!”. La Sorge si allontana, rassegnata al fallimento del suo tardo tentativo pedagogico. Ma nell’allontanarsi gli soffia sul volto, e Faust è cieco. La notte scesa su di lui non vale a farlo ravvedere. Non lo trasforma in un contemplatore. Lo condanna anzi alle tragiche contraddizioni del suo Streben, del suo inesauribile anelare. Si getta a capofitto sulle ultime “grandi opere” di bonifica, sul disegno del grande canale. “Fate che io possa vedere compiuto quanto avevo ideato”. Si inebria, brancolando nel buio, al rumore delle vanghe e delle pale: “Come mi rallegrano i colpi delle vanghe,/La terra si riconcilia con se stessa. Rigidi confini delimitano il mare: “Ogni giorno voglio essere informato/di quanto si allunghi il canale”.

Ma spetta ora a Mefistofele, al suo sarcasmo apocalittico, commentare sottovoce la cieca ostinazione del vecchio a celebrare il rumore della ferraglia “progressiva”, con un crudele gioco di parole tra Graben (Fosso, canale) e Grab (Fossa, sepoltura, tomba). “Mi giunge notizia che non di fossato si tratta, ma di fossa”. E sono i Lemuri, i becchini infernali, a produrre quel rumore, scavando la fossa per lui, non gli operosi lavoratori.
Su questo tragico siparietto, si chiude la vicenda terrena del grande dilettante. Quello che segue, frana cigolando e stridendo, tra celestiali fanfare e abissali strepiti, verso il finale scenografico: che suggella con l’enigma della salvezza finale del protagonista il sublime centone poetico goethiano.

*Naboth si rifiuta di cedere la vigna ereditata dal padre al Re Achab di Samaria, perché lo vieta la legge ebraica. Viene lapidato su istigazione di Jezebel, moglie del Re. (Re,3,21,1-16).

**Così Nietzsche definisce il nichilismo in Frammenti postumi 1885-1887

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