Corpus Domini. Natività di San Giovanni. Il Mac di San Zuan.
SGUARDO E MEMORIA di Umberto Valentinis
Tra Equinozio di Primavera e Solstizio d’Estate la veste vegetale della stagione subisce una metamorfosi profonda. Sul sottobosco delle macchie, nei boschi, sopra le fioriture della primavera che dilegua, si innalza la volta del fogliame nuovo. Come animata da un segreto fervore, intesse sempre nuove e più ramificate trame e la sua verde ombra leggera sembra espandersi agli aliti delle brezze rinnovate, che la fanno vibrare.
Scompaiono allora come per incanto, al riparo, ma anche sopraffatte dalla sua ombra frusciante, le fioriture precoci ed effimere che avevano invaso il sottobosco nudo dell’inverno. La terra ridiventata molle e ricettiva sembra riassorbire il miracolo delle fioriture candide, azzurrine o violette. Scompaiono le corolle innumerevoli degli anemoni, dei bucaneve; marciscono i petali di seta dei crochi, solo le micce degli stami ardono ancora per un poco sotto i cieli incerti, solcati da nubi che si sfilacciano lente, scossi di tanto in tanto dal rotolio sordo dei primi tuoni, che risvegliano la biscia nella sua tana. Si dilegua con loro anche l’effluvio di umori acerbi e amarognoli che ne aveva accompagnato la fioritura.
Ma mentre in basso qualcosa sembra sprofondare, come riassorbito dalla terra, verso l’alto, nelle macchie e nei boschi, di ramo in ramo, l’ascensione del verde cresce senza tregua verso il culmine della stagione.
C’è un momento in cui il suo fervore verticale, prima di tracimare e attutirsi nell’opaca alluvionale verde dell’estate piena, sembra arrestarsi in bilico nel folto delle chiome, quasi a sostenere i cieli nuovi, ora turbati da vasti e a volte tumultuosi transiti di nubi. Sopra la terra rimasta nuda di fiori ai suoi piedi, è ora il bosco a fiorire, in una inesauribile cascata di corolle, di grappoli, di corimbi, di racemi. Il bianco domina su ogni altro colore: risplende dall’ombra verde solo quel biancore, come emanato, un poco spettrale.
Ma anche nelle radure libere di vegetazione, nei prati di pianura o in quelli del monte, le fioriture sembrano innalzarsi da terra, come incalzate da uno slancio verticale non dissimile da quello che nel bosco e nelle siepi sospinge la linfa lungo i tronchi e la suddivide tra i rami fino alla più piccola foglia, alla gemma più acerba.
Sui prati ormai alti e maturi aleggeranno fino al termine della fioritura, o fino al primo risuonare della cote sul filo della falce, miriadi di insetti bottinatori, avidi di polline e di nettare, e altrettanti strisceranno e si perderanno tra i loro verdi meandri.
Nei boschi dove è appena cessato il singulto del cuculo primaverile, l’ombra densa e silente verrà perforata dalla freccia gialloverde del volo del rigogolo e il suo canto furtivo riecheggerà sonoro e struggente, quasi timoroso di averne turbato l’immobilità. Verso sera, dopo il tramonto, per chi si inoltrasse in silenzio nel folto di un boschetto, o anche più tardi, a notte inoltrata, anche in assenza del chiarore della luna, anche sotto un cielo cieco di stelle, potrebbe risuonare improvviso il canto solitario dell’usignolo, e infervorandosi di pausa in pausa, di vocalizzo in vocalizzo, di picchettato in picchettato, espandersi ed echeggiare per tutte le cavità della notte e fermare il passo e il respiro di chi lo ascolta, di chi pensa che mai più gli sarà dato di ascoltare un canto come quello.
In prossimità del Solstizio nei prati alti e maturi si entra come in un fiume: dalla sua corrente “erbale e silente”, si potrebbe lasciarsi trascinare senza opporre resistenza; fino a lasciarsi sommergere e in essa annegare. Continuerebbero a ruotare i cieli sopra di noi. Delle immani catastrofi che dall’inizio dei tempi divampano e franano nei segreti recessi del mondo iperuranio, nessuna eco raggiungerebbe il nostro orecchio. Sarebbe intento al mite ruminio dell’erba che cresce, al frinire dei grilli, alla vibrazione dei “finissimi sistri d’argento” delle cavallette, che vi si aggiungono e accompagnano nel sonno e nei sogni. Solo lo sguardo spalancato, un poco sgomento, non cesserebbe, dal buio, di esplorare lo sfavillio del firmamento che sciama lentissimo in alto, e ne resterebbe abbagliato, inseguendo il disegno delle costellazioni familiari, compitandone sottovoce i nomi.
«Cjale ce furmiâr di steles»: rinascono dalla memoria le parole che si mormoravano sottovoce sulla soglia della notte estiva, prima di ritirarsi, prima di riuscire a distogliersi dal suo incantamento. Qualcuno, di sopra, stava chiudendo le imposte (al tirave dongje i scûrs) e una striscia di luce passava fugace, per l’ultima volta, a lambire l’erba del prato, mentre la rugiada cadeva e credevamo di sentirne stillare le gocce sul verde di nuovo invisibile, ormai sommerso dalla notte.
Alle spalle dell’amanuense, intento a trascrivere le parole del suo desiderio, si leva una presenza antica, che proviene da un tempo ancora più remoto. Si china a guidare la mano che trascrive le parole che gli detta, che descrivono ed evocano, mormorandole all’orecchio; incrocia infine le mani sui suoi occhi, perché il suo ascolto non sia turbato da nulla e la sua fedeltà preservata.
Tempo ciclico si chiamava quel tempo remoto. Dal suo alveo tutto nasceva eternamente e in esso eternamente e ciclicamente moriva e rinasceva; ignaro di origine, di fine, di salvezza. Un tempo nuovo, che annunciava il compimento e la salvezza, ha fatto irruzione più tardi. E ha inaugurato la storia. A lungo, tempo ciclico e tempo escatologico hanno mescolato i sedimenti immaginali e le narrazioni mitiche convogliate dalle loro correnti: incessantemente ibridandosi, contaminandosi, travestendosi. Alla fine, il tempo più antico ha finito per soccombere.
Ma tracce del tempo ciclico sono ben riconoscibili in molte celebrazioni rituali della Cristianità. Chi è nato nel secolo passato conserva vivo il ricordo della processione del Corpus Domini. In memoria del corporale intriso del sangue stillato dalla particola a Bolsena, lungo le strade di ogni paese, allora ancora bianche, ancora odorose del fieno da poco transitato sui carri carichi, sul lento scalpiccio dei nemai, alto, tra le mani dell’officiante ricoperto di paramenti baluginanti d’oro e d’argento, sfilava nel suo ostensorio raggiato il Santissimo, mentre il baldacchino ondeggiava al ritmo dei passi dei portatori. Sulle teste reclinate dei fedeli ondeggiavano i gonfaloni. Il tempo ciclico aveva lasciato il suo segno lungo i muri delle case. Nelle fronde ramose, verdi e bianche, dei frassini, delle betulle, dei castagni, delle robinie; nelle fronde della barba di capra, che tappezzavano i muri a pianterreno di tutte le case che la processione lambiva; che nelle strettoie si curvavano in alto, dai due lati, a formare una volta verde e frusciante, di capanna e di chiesa. Nella scjernete di petali odorosi che i piedi della processione calpestavano. Tra il sangue di chi ha vinto la morte risorgendo e il sangue verde della vegetazione che muore e rinasce, scorrevano e si mescolavano correnti simboliche in origine separate, che avevano finito per fondersi nel magnifico rituale cristiano. E le bocche degli officianti e dei fedeli ripetevano, senza saperlo, parole cariche di antichissime risonanze, che sia pure irriconoscibili, agivano ancora sui moti profondi del corpo, sui pensieri più occulti.
Tracce ancora più significative segnano il tempo solstiziale. La morte annunciata del Sole arresta il ciclo delle morti e delle rinascite e suscita terrore, nella natura intera e nell’uomo.
Il terrore suscitato veniva esorcizzato da potenti dispositivi rituali. La mano che sceglieva piante e fiori e li raccoglieva prima della catastrofe temuta, volgendole le spalle, era uno di quelli: una raccolta di pochi “oggetti metonimici”, rappresentanti di un tutto minacciato di rovina, metteva in atto una strategia di conservazione e di ripristino ad altissima tensione simbolica. Il gesto del raccoglitore di piante prodigiose - ma sarà di regola una raccoglitrice, e non casualmente -, richiama il gesto di Anchise, il “portatore metonimico”, abbarbicato ai Penati, ai quali soli Enea fuggiasco affiderà la restituzione simbolica della Troia perduta. E il prodigio che il tempo escatologico ha reinterpretato, collegandolo al Battista, dalle sue remotissime origini precristiane attinge un potere suggestivo ancora più intenso, che non cessa di emanare.
Altre tracce di quel tempo, ma sempre più labili e contraffatte, sono approdate fino alle soglie dell’eterno presente, immemore di passato e incapace di futuro, nel quale sembra estinguersi anche il tempo nuovo della salvezza. Le correnti più profonde del tempo ciclico sono scomparse, inabissate sotto le coltri alluvionali della modernità.
Ripullulano, di tanto in tanto, qua e là. Ma sono irriconoscibili ai più. Da noi, in qualche Cjanâl della Carnia, in qualche villaggio della Slavia friulana, o altrove, sono vissute o vivono ancora, donne sapienti.
L’orma impressa da quel tempo sui loro gesti e sulle parole che li accompagnavano, era ancora riconoscibile: in essi si perpetuava e si stratificava stabilmente una tradizione antichissima. Come è sempre accaduto, la sua trasmissione rischia di interrompersi, quando il contesto culturale che la innervava si dissolve, e in compenso proliferano le sue contraffazioni, favorite proprio dal suo esilio.
Così, le celebrazioni solstiziali, per quanto crescenti di numero, per quanto accuratamente promosse: i falò accesi, la raccolta delle erbe salvifiche e miracolose, bagnate o no dalla santa rugiada, la loro composizione nei “mazzolini di San Giovanni”, elegantemente infiocchettati, quasi mai testimoniano della sopravvivenza di una tradizione. Sono il più delle volte “eventi turistico-culturali”. Esprimono soprattutto l’attrazione irresistibile dei transumanti cultural-eno-gastronomici e dei loro “fornitori di tradizione” per un bricolage pseudo culturale e pseudo identitario, oscillante tra il disinvolto utilizzo di segni, spesso e volentieri fraintesi, e la bulimia di una interiorità deserta, da colonizzare, non importa come.
Intanto, sopra le sagre del Solstizio, l’arco del Sole continuerà a diminuire di qualche grado ogni giorno, avviandosi verso la sua morte e la sua rinascita invernale. Si spegneranno i falò solstiziali, e al calare della notte stillerà la rugiada, non più magica, sulle erbe miracolose e su quelle senza valore.
Anche sul capo dell’amanuense fedele e apprensivo che ha vergato queste righe. Che si avvede ora di non avere usato quasi mai il tempo del desiderium, mentre la fedeltà alla quale dice di sentirsi obbligato, lo pretenderebbe. Solo sostituendo tutti i presenti storici e gli imperfetti narrativi che l’amanuense ha usato per trascrivere le sue rapsodie, con il più remoto dei passati, col più trapassato dei trapassati, sciolto da ogni prossimità col presente, da ogni sospetto di futuro, potrebbe sperare di ascoltare di nuovo il fruscio sommesso di quella corrente temporale remotissima. Da epigono tra gli epigoni, da “esule metonimico”, da poeta esperto dell’assenza, non da erede, l’amanuense ha cercato di evocare, di scorcio, le ultime tracce di un mondo che il tempo ciclico aveva attraversato, con le sue correnti feconde. Non occorre aggiungere che quasi tutto è andato perduto. Ma un grandissimo poeta tedesco, Friedrich Hölderlin, ricorda che: “Vieles aber ist/ Zu behalten. Und Not die Treue”. (Ma molto è da serbare. E la fedeltà un obbligo). Con questo ammonimento l’amanuense si congeda: dal suo desiderium, e dalle parole che hanno cercato, fedelmente e imperfettamente di esprimerlo.